“Giuro sulla mia vita e sull’amore che provo per essa che non vivrò mai per il bene di un altro uomo né chiederò mai ad un altro uomo di vivere per il mio”
John Galt, Atlas Shrugged
Ogni recensione italiana del romanzo “La rivolta di Atlante” di Ayn Rand osserva con stupore, come premessa, come sia pressoché sconosciuto in Italia un libro che negli Stati Uniti rappresenta una fra le letture più note e fondamentali. Viene letto in diverse scuole superiori come da noi la Divina Commedia, vanta 7 milioni di copie vendute a inizio millennio cui se ne aggiungono circa 250mila ogni anno ed è -secondo un sondaggio compiuto dalla Library of Congress- il secondo libro più letto in USA dopo la Bibbia (al terzo posto la Guida Galattica per Autostoppisti).
Sospetto possa essere per la verbosità di un libro di 1400 pagine (tradotto in Italia negli anni settanta da Corbaccio nei tre volumi, corrispondenti ai capitoli della saga, con caratteri necessariamente di dimensione mignon), che si dilunga in descrizioni d’ambiente e personaggi, con una traduzione non propriamente contemporanea, pur essendo leggibilissimo e molto coinvolgente. Ci ho messo sei giorni a leggerlo tutto, obbligando persone intorno a me a leggerlo, e mentre scrivo non so ancora se l’incazzatura del titolo sia quella dell’Atlante evocata dall’autrice, la mia nel rendermi conto che non conosco nessuno che ne abbia sentito parlare, o sempre la mia, verso l’autrice, cui vorrei contemporaneamente stringere la mano e prenderla a sberle.
Non è facile spiegare come sia possibile appassionarsi alle vicende di un industriale produttore di metallo e di una aristocratica imprenditrice direttore esecutivo della più grande ferrovia americana; dico appassionarsi sul serio, non solo invidarne i soldi o la bella vita, o seguirne articolate vicende come in Dinasty o Dallas. Intendo proprio parteggiare per loro, voler conoscere la fine della loro battaglia, arrivare al punto -se non di condividerli- almeno di comprendere i loro ideali e sogni. Ho la sensazione che il libro sia anche vittima di un pregiudizio e di una scarsa conoscenza di alcune idee americane quali liberalismo, liberismo, libertarianesimo, capitalismo, anarcocapitalismo e via dicendo, dei quali genericamente si tende a fare di tutta l’erba un fascio. Cosa che rende quindi estremamente complesso collocare Ayn Rand ( “the name makes liberals gasp and libertarians puff up their chests” ) in una qualche corrente: è per alcuni un riferimento di un certo tipo di conservatorismo americano, pur venendo disconosciuta da un altro certo tipo di conservatorismo americano; è libertaria ma non ci si identifica, si avvicina all’anarchismo che considera uno fra i peggiori nemici, arrivando infine a dare vita a una corrente filosofica tutta sua, l’oggettivismo, che quando era ancora in vita si è scissa in due correnti e alla sua morte in ulteriori rivoletti, forse pari al numero dei suoi membri.
La più piccola minoranza al mondo è l’individuo. Chiunque neghi i diritti dell’individuo non può sostenere di essere un difensore delle minoranze.
The Ayn Rand Lexicon
Eppure -e questa è una delle caratteristiche che maggiormente invidio alla letteratura americana- l’unica cosa necessaria per leggere e godersi questo libro è saper leggere: nessuna sovrastruttura, competenza, conoscenza, analisi, capacità di circostanziare, non è necessario nulla. Il libro peraltro non è scritto nemmeno particolarmente bene. Ha stile ampolloso e in certi passaggi retorico, si dilunga nelle descrizioni, usa almeno 10 volte l’espressione ‘la prese quasi con violenza‘ per descrivere un rapporto sessuale come fosse un romanzo d’appendice. Eppure è un capolavoro. Una lettura popolare che si fa romanzo proponendo un sistema di idee filosofiche, politiche e sociali adatto a tutti (a parte un ‘pippone’ di spiegazione molto teorico, che nella trama è rappresentato da una trasmissione radiofonica di tre ore e nel terzo libro occupa settanta pagine di monologo, ma a saltarle non se ne accorge nessuno, anche se leggerle male non fa). A dir la verità, il fatto che presenti un sistema filosofico solo attraverso un romanzo ha fatto storcere il naso anche a diversi critici (e filosofi) USA, ma di questo ne parleremo più avanti.

L’America della Rand è l’America delle piccole città reperibile nell’evocativa immagine delle strade di periferia piene di negozietti ed attività varie, ognuna con la propria insegna e il nome del proprietario, talvolta di origine straniera, ebreo, russo, sudamericano… Dove chiunque ha idee e voglia di lavorare può raggiungere il successo. Come la Rand stessa, rifugiata negli Stati Uniti dall’Unione Sovietica di Stalin nel 1925 (Fonte immagine)
La trama
La vicenda si svolge negli Stati Uniti, in un futuro imprecisato ma non troppo prossimo (rispetto al 1957, anno di pubblicazione del testo), il governo è leggermente più autoritario dell’attuale e reale, le leggi tendono a regolamentare strettamente libera impresa e mercato, l’imposizione fiscale necessaria per sovvenzionare aziende in stato di crisi, stato sociale, sanità, scuole e apparato governativo è anno dopo anno sempre crescente. Diverse nazioni si sono già autoproclamate “repubbliche popolari” (come l’Inghilterra), e altre lo diventeranno a breve, seguendo il principio morale che lo scopo di uno stato sia assicurare benessere a tutti, attenuare ingiustizie sociali e iniquità, attraverso la presa in carico dei servizi da parte del governo stesso.
La protagonista, Dagny Taggart, è la secondogenita della famiglia proprietaria della più grande ferrovia americana. Alla morte del padre ne diventa direttore esecutivo, dovendo lasciare il posto di presidente al fratello maggiore (e maschio). Questi in realtà pare maggiormente interessato a feste e moda e sembra possedere capacità limitate per mandare avanti l’impresa di famiglia, per quanto abbia notevoli doti nelle public relation. Ma le tradizioni sono dure a morire, la donna per affermarsi deve sbattersi il doppio e Dagny tutto sommato preferisce lavorare nell’ombra e comparire poco, quindi il duetto in formazione al comando potrebbe funzionare.
Accanto a Dagny, Hank Rearden: altro imprenditore (in questo caso un vero uomo americano selfmade, che dal nulla ha messo su la più grande azienda produttrice di acciaio), poco dopo le prime pagine ideatore di una lega dalle strabilianti prestazioni, soprannominata “metallo Rearden”. Obiettivo dei due protagonisti quello definito come obbiettivo di ogni grande industriale o imprenditore: fare affari, forgiare metallo con cui costruire ferrovie, far arrivare treni in ogni periferia dell’America favorendo lo sviluppo del commercio e lo scambio di nuove merci, far contenti gli azionisti, contribuire allo sviluppo della più grande nazione del mondo sostenendo il progresso e lo sviluppo dell’uomo.
Fra questi due tipici rappresentanti del grande sogno americano e il raggiungimento dei loro obiettivi si interpongono, con un crescendo nel corso dei tre volumi e delle 1400 pagine, regolamentazioni commerciali a tutela del libero scambio che diventano sempre più restrittive e ingombranti, norme per il sostegno a imprese più deboli, con eccessi e oltranzismi via via più spietati: dal divieto di avere più ferrovie in un unico stato, all’obbligo di mettere a disposizione di altre imprese brevetti reputati fondamentali per lo sviluppo, dai prezzi calmierati agli stipendi fissati per legge, dalle norme contro i licenziamenti a quelle per la prevenzione del fallimento fino ad arrivare al divieto di fallire, di chiudere un’azienda, di cambiare lavoro.

La statua di Atlante, posizionata davanti al Rockefeller Center a New York
Il punto di arrivo di un percorso sempre più perverso è rappresentato dalla direttiva 10-289. Per “fermare” il declino di un mondo dove ormai non funziona più niente, manca l’energia elettrica in gran parte del Paese, non si produce più e la disoccupazione è alle stelle, la direttiva obbliga ogni azienda a produrre solo ed esattamente le stesse cose dell’anno precedente, ogni cittadino a mantenere gli stessi consumi, ogni lavoratore ad essere strettamente legato al proprio posto di lavoro, ogni produttore a non inventare nulla di nuovo. Chiuse università, laboratori scientifici, proibite le invenzioni, e congelata ogni innovazione culturale (gli editori – -ad esempio- sono obbligati a stampare gli stessi titoli e nello stesso numero di copie dell’anno precedente, solo ristampe e nessuna nuova idea).
Ma non sono semplici regolamentazioni del mercato, leggi sempre più pressanti o tasse più alte, o l’incapacità del governo davanti al nobile fine di tutelare il debole e assicurare comunque una vita dignitosa a tutti: è una visione del mondo, dei rapporti culturali e sociali che permea ogni ambito della vita dell’uomo. Per quanto i nemici principali siano identificabili in due categorie ben definite (la gente di Washington, ovvero politici e lobbisti che maneggiano dietro lauti compensi per leggi a tutela di chi li paga, e i pescecani, ovvero chi per un motivo o un altro ha posizioni di potere e rendita in imprese e cerca di vivere sulle spalle di altri, come il fratello della protagonista), è tutta la società ad aver introiettato a tal punto queste norme a presunta difesa dei deboli da farne uso nel proprio quotidiano.
Si arriva ad esempio a suggerire di stabilire un tetto massimo di copie stampate per ogni libro, in modo che -esaurite quelle- il pubblico sia automaticamente obbligato a dare un’opportunità anche a scrittori i cui risultati editoriali si dimostrano più scadenti: devono comunque avere un’opportunità anche loro. In ambito affettivo, è la stessa moglie di Rearden a spiegare le ragioni del suo matrimonio con un uomo di cui lei, come il mondo tutto, non condivide alcuna idea e anzi gli fa ribrezzo, chiedendo quale onore vi possa essere nell’amare un uomo “amabile” e interessante, che tutti apprezzerebbero. Il vero amore disinteressato e altruista è amare l’uomo deriso, disprezzato, incapace. Che non piace nemmeno a noi. Accanto a lei, la stessa madre di Rearden aggiunge che non vi è onore nell’assumere l’uomo capace e in gamba, il vero segno di dedizione verso la propria comunità e la propria nazione è assumere il nullafacente, colui che non troverebbe mai alcuna attività, e farsene carico.

‘Chiamatelo fato o ironia, ma sono nata, tra tutti i Paesi della Terra, in quello meno adeguato per una sostenitrice dell’individualismo’. Ayn Rand, nata a S. Pietroburgo nel 1905 da genitori ebrei agnostici, socialisti sostenitori di Kerenskij, ottiene un visto per gli Stati Uniti nel 1925, e non torna più indietro.
Mentre Dagny Taggart e Hank Rearden -seguendo la loro etica del lavoro- cercano in ogni condizione, nonostante leggi, denunce e tribunali, di portare avanti le loro attività, riunire i migliori imprenditori e risollevare una nazione, qualcuno davanti allo stesso problema ha scelto un’altra strada. Una dopo l’altra, le migliori menti della nazione scompaiono: industriali, scienziati, musicisti, professori e poi anche impiegati o operai, tutti coloro che fino al giorno prima mettevano dedizione e impegno nel portare avanti i propri compiti spariscono senza lasciare alcuna traccia e non vengono più trovati. E’ lo sciopero dei cervelli, la rivolta di Atlante che, stufo di portare il mondo sulle spalle e di venire per questo insultato e umiliato, posa a terra il pianeta e incrocia le braccia. Cosa succederebbe al mondo se tutti gli uomini di successo, tutti coloro che credono nel loro lavoro, che lavorano per il loro profitto e per la loro soddisfazione personale e che per questo vengono odiati e osteggiati, smettessero di lavorare? Il duetto Taggart-Rearden finisce per rappresentare per gli scioperanti la coppia verso cui provare maggiore ammirazione per le loro capacità, e i primi nemici da abbattere: coloro che pensando di combattere il sistema ne rappresentano la colonna portante, facendosi continuamente carico dei fallimenti e delle sconfitte altrui.
Per sapere se possa in qualche modo esistere un vincitore e chi esso sia, leggetevi il libro.
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(nota: non guardate la trilogia di film perché è fatta veramente male)
Distopismo per i nemici, idealismo per gli amici
Pur essendo Atlas Shrugged un libro piuttosto lungo, scritto non benissimo, incentrato su un gruppo di esosi capitalisti interessati solo a far soldi, arrogante nell’usare il distopismo per raccontare le idee politiche che l’autrice avversa e l’idealismo (non venitemi a dire che il sogno di Galt è realizzabile) per le proprie, è un capolavoro.
E’ il libro che maggiormente -nei miei ultimi dieci o vent’anni- mi ha dato spunti di riflessione e approfondimento, su temi assolutamente attuali. Me ne rendo conto anche perché è un mese che lo ho finito, e ancora rimaneggio e aggiorno questa recensione, perché non voglio perdere la possibilità di continuare a ragionarci sopra.
Il sesso, ecco questo proprio no.
L’unica tematica che trovo talmente mal interpretata da poter essere completamente messa da parte riguarda il rapporto fra uomini e donne e il sesso. La donna “presa quasi con violenza”, la donna alla ricerca dell’uomo di successo, la donna che se non trova l’uomo ideale è meglio che stia da sola la trovo una derivazione -per quanto atea come l’autrice- della donna costola d’Adamo, vecchia di millenni. Grazie al cielo nel libro la genitorialità è affrontata brevemente nelle ultime pagine, perché se dovessi basarmi su quanto ha detto in un paio di interviste, le sarei stata alla larga.
La consunzione della morale
Benché alla base del libro vi sia la storia di due imprenditori e il loro egoistico desiderio di fare soldi (lo dicono loro chiaramente e fieramente, senza tanti giri di parole), l’importanza del libero mercato e la necessità che lo Stato interferisca il meno possibile negli affari e nella vita degli uomini, non sono i soli temi affrontati. E’ un romanzo distopico, e l’autrice ovviamente affronta la pagina col potere di chi ha la penna in mano e il potere di decidere. Molte delle leggi promulgate nel corso della vicenda, i danni che le aziende dei protagonisti subiscono oltre che essere portate all’eccesso non sono conseguenza diretta del sistema sociale e politico rappresentato, quando della corruzione, della burocrazia, della fama di potere, ovvero dei meccanismi indiretti che si vengono a creare. Questi meccanismi si creano perché ci sono le condizioni, e perché l’opinione pubblica in parte ha assorbito a tal punto le idee che le vengono proposte da averle assunte come principi di vita e non è in grado di metterle in discussione. Due fra le parole più utilizzate nel libro sono morale ed etica, seguite da valore e ideale. Vengono ripetute talmente tante volte, in tante occasioni, e per giustificare tante scelte da perdere lentamente di significato, da consumarsi.”Diventano gusci vuoti con cui ogni singolo individuo non giustifica nemmeno il proprio credo o delle idee, ma vi nasconde dietro i propri bisogni personali. Se qualcosa è morale, è diritto dell’individuo averla, ed è dovere di altri individui fornirgliela. E’ morale che tutti gli esseri umani debbano essere sfamati, dunque è morale che qualcuno si tolga il proprio cibo di bocca per darlo a un altro, ed è morale che chi ha strumenti per reperirsi il cibo da solo ma non lo voglia fare, venga ugualmente nutrito dagli altri? Quando il termine perde di un significato condiviso, ogni direttiva emanata da uno stato che propone morale ed etica come propri valori fondanti, per quanto ferrea possa essere, presenta una miriade di commi e articoli e sotto-leggi per adattarsi alle singole situazioni. Finché non si stabilisce che debba esistere una qualche autorità morale (nel libro il capo dell’Istituto di Studi Scientifici nazionale, naturalmente il più stronzo di tutti), che abbia il potere di non sottostare alle leggi e trovare soluzioni ai casi critici (dei suoi amici, naturalmente). Il potere che ha in mano questo sistema, questa persona, è conseguenza stessa, nel libro, di un sistema che cerca di definire le leggi in base a una morale in realtà soggettiva e aleatoria. Dove il soggetto ha imparato a dire “ho bisogno”, ma gli è stata tolta la libertà di decidere come cercarne soddisfazione.
BONUS TRACK: In questa altra recensione dello stesso libro, guardate il video dove Fausto Raciti smonta la meritocrazia, in quanto non democratica.
La risposta di Ayn Rand, Di Hank Rearden, di John Galt, di tutti gli imprenditori che lavorano e producono è semplice. C’è una grande invenzione dell’uomo che è servita proprio per definire il valore di ciò che gli uomini si scambiano fra loro, che siano beni o servizi, e questa cosa è il denaro. Nello scambio puro, tu dai una cosa a me, propongo un prezzo, se ti va bene effettuiamo lo scambio, se no amici come prima. A è A, e non è B, ciò che è non può non essere, realtà è ciò che esiste. Fine della questione.
La realtà è ciò che esiste; ciò che non è reale non esiste; Il non reale è semplicemente la negazione dell’esistenza, ovvero il contenuto di una coscienza umana quando tenta di abbandonare la ragione. La verità è il riconoscimento della realtà; la ragione, l’unico mezzo di conoscenza dell’uomo, il suo unico standard di verità (…). Il processo razionale è il solo processo morale (…).
Questa è, in ogni momento e in ogni occasione, la tua unica scelta morale: pensare o non pensare, esistenza o non esistenza. A o non-A, essere o nulla”
John Galt, Atlas Shrugged (traduzione mia)
La scarificazione della parola
Il soliloquio via radio di John Galt arriva nel terzo libro, nei primi due le disquisizioni teoriche o filosofiche sono veramente poche. Il duetto Taggart-Rearden parla poco, preferisce lavorare sodo, si rifiuta di intrallazzare e comunicare con la gente di Washington e va alle feste solo se obbligato. Rearden è più simbolico: è il grande industriale di successo, è famoso in tutto il mondo, è pieno di soldi, ed è l’unico che si può permettere (anche perché non glie ne frega niente) di fare la faccia da fessacchiotto e dire non ho capito, cosa mi stai dicendo, cosa vogliono dire le parole che stai mettendo in fila, che senso ha quello che esprimi. Lo dice alla moglie, lo dice alla madre, lo dice ai funzionari statali venuti dalla capitale per convincerlo a regalare il suo brevetto, lo dice al direttore dell’Istituto Nazionale della Scienza. I discorsi sull’etica che vengono posti a giustificazione di atti che non comprende hanno bisogno di migliaia di parole di spiegazioni: e se alla fine non le capisci, la colpa è tua. Rearden cerca sistematicamente di riportare il discorso al concetto fondamentale, di ridurre i fiumi di parole in cui si trova immerso in quelle poche, valide, atte a spiegare ciò che si vuole dire. A è A, fine della questione. Quando finisce in tribunale e risponde in maniera secca e concisa al giudice che vuole ottenere un suo assenso alla punizione conferita, lui non capisce, e lo dice. Dichiara che non c’è nessun elemento razionale per cui lui possa credere al suo sistema. Chiede una spiegazione razionale che non può arrivare, e dimostra in questo modo il fallimento del sistema. A questo punto, tutto il pubblico presente, che dovrebbe essere ben felice nel vedere un industriale spellato vivo e incarcerato perché antisociale, lo applaude. Lui esce un po’ stralunato, pensando che allora, forse, può esistere una parola talmente semplice, talmente ovvia, talmente razionale e cristallina che possa essere compresa da chiunque.
Fuori dal romanzo, mi sono immaginata questo personaggio seduto a buona parte delle conferenze cui ho partecipato nel mondo reale. L’ho visto alzarsi in piedi e chiedere “Ma cos’è che vuoi realmente dire?”. Cosa viene nascosto dietro a un discorso confuso?
Stato minimo versus stato sociale
Lo stato talmente morale da essere il più totalitario immaginabile della Rand è una visione esasperata e gretta dello stato sociale. E’ uno stato che non toglie all’individuo con la forza, ma vuole costringere l’individuo ad asserire di credere in quei principi morali che lo portano ad essere privato di tutto. E’ uno stato che ha bisogno della sua vittima per andare avanti. L’autorizzazione della vittima è in realtà subdola: non basta dirsi contrari a parole continuando però ad accettare tassazioni e restrizioni sempre più alte, leggi assurde e lavorare in condizioni sempre più precarie ed economicamente svantaggiose. La responsabilità è manifestare il no, dire a queste condizioni io non lavoro, chiudo l’azienda, licenzio tutti. Dovranno fare una legge apposita che impedisca agli imprenditori di smettere di lavorare, anche in condizioni di svantaggio, anche in perdita.
Il danaro non comprerà la felicità per l’uomo che non ha idea di ciò che vuole; il danaro non gli darà un codice di valori se ha rinunciato alla conoscenza di cosa abbia valore, e non gli fornirà un obiettivo se ha evitato di scegliere per cosa lottare. Il danaro non procurerà l’intelligenza allo stolto, ammirazione al codardo, rispetto per l’incompetente. L’uomo che ha cercato di comprare il cervello di chi gli è superiore perché questi lo servisse, usando i soldi invece che l’intelligenza, finirà per essergli servo. Gli intelligenti lo abbandoneranno, mentre i furbi e i truffatori lo circonderanno, secondo una legge che lui ancora non conosce: nessun uomo è più piccolo del suo danaro: per questo tu definisci il danaro il male?
Francisco d’Anconia, Atlas Shrugged, mia traduzione
La Twenty century è una piccola azienda dove è stato inventato un motore capace di produrre energia dalle scariche elettrostatiche dell’aria, praticamente a costo zero. Alla morte del proprietario i tre figli la rendono sede di un curioso esperimento sociale: d’ora in poi, ogni lavoratore produrrà quello che è in grado di produrre, secondo le sue capacità, e ricaverà in cambio la soddisfazione di tutti i suoi bisogni, secondo sue necessità. Una assemblea plenaria riunita periodicamente dovrà stabilire quali siano i bisogni principali, concordare cosa abbia precedenza e cosa no. Ed è così che si trovano a discutere fra loro su se sia più importante l’apparecchio per i denti di un figlio o la sedia a rotelle del genitore anziano, a stabilire che i dischi di musica da collezione di un anziano operaio abbiano meno importanza dei libri di scuola del liceale. Quanto lavorerà un uomo cui si dice che la sua unica passione è futile, e gli viene tolta per sovvenzionare gli studi del figlio di un altro? Gli impiegati si trovano a discutere del perché chi non ha figli o ne ha uno si debba d’improvviso fare carico dei quattro o cinque (sei.. sette… visto che averli dà più soldi che lavorare) del collega. Mentre un tempo si facevano collette alla morte di un genitore di un operaio, adesso ci si guarda di sottecchi e si va al funerale per giudicare se le spese sostenute sono adeguate o se qualcuno sta imbrogliando. La condivisione di responsabilità altrui, di cui nulla si conosce e di cui non ci si sobbarca delle conseguenze, porta alla deresponsabilizzazione di tutti. La ditta fallisce, e il magico motore non verrà mai prodotto.
C’è un dialogo fra il capo di un sindacato e Dagny Taggart in cui il primo spiega alla seconda che nessun membro del suo sindacato guiderà mai locomotive su binari fatti di metallo Rearden. Il sindacalista dice che deve tutelare i suoi iscritti, che il metallo potrebbe rivelarsi insicuro, che la velocità è eccessiva, che porrà un veto su questo lavoro. La Taggart chiede che tipo di rassicurazioni potrebbe fornire: dati scientifici, spiegazioni, quale cifra… Il sindacalista è irremovibile. La Taggart a questo punto sbotta: non può lasciare agli uomini responsabilità di decidere cosa vogliono fare, di informarsi, di decidere per se stessi? Quanta della propria libertà si perde, rinunciando alla responsabilità del proprio lavoro, nel momento in cui si accettano i presunti benefici di un ente che stabilisce cosa e come tu possa fare, per il tuo bene? Lo stato sociale tutela un individuo generico, mai un soggetto specifico.
In una delle ultime pagine, la stessa Taggart punterà una pistola in faccia a un guardiano (disarmato) cui è stato ordine di non far passare nessuno attraverso una porta. Gli dirà che lei è disposta a morire per ciò che sta facendo, e gli chiederà di scegliere se quello per cui lavora vale tanto da perderci la vita, o se è il caso di mettersi da parte e farla passare. Lui risponderà che non è pagato per decidere, che l’uomo non deve vivere per prendere decisioni. E lei gli sparerà (a una gamba).
E noi, con la Divina Commedia sotto braccio.
L’ultima riflessione è una provocazione che ho fatto a mia madre, insegnante di italiano e latino per trentanove anni, cui ho fatto casualmente vedere il libro questa estate e che ha deciso di leggerlo per divorarlo in sei giorni a sua volta. Le ho chiesto che differenza possa esserci fra una scuola che propone la Divina Commedia come testo obbligatorio rispetto a una che ti propone Atlas Shrugged (in USA non è proprio imposto come la Divina Commedia, ma lo leggono quasi tutti). La Divina Commedia è la perfezione. Non si può entrare in classe e dire che è un brutto libro, che l’autore propone delle idee distorte, eventuali critiche degli studenti verteranno sul fatto che è anacronistica, lunga e un po’ noiosa. E’ per la scuola italiana un sapere assoluto e certo, da non mettere in discussione. Poi, è stata scritta nel 1300, ciò che c’è dentro è storia. Atlas Shrugged è di sessant’anni fa, parla di idee politiche e di vita sociale, dice cose sbagliate, ogni tanto le dice anche male. Tratta molti temi fondamentali della filosofia e della vita dell’uomo, ed è un libro che invoglia alla critica e al dibattito. Non è in terzine, non bisogna fare la parafrasi, non occorre grande cultura per leggerlo.
Che differenza può esserci per un ragazzo a cui viene dato un testo perfetto, incontrovertibile, storicamente collocato in un’epoca talmente lontana da non farci dover nemmeno pensare a se parteggeremmo per i guelfi o i ghibellini, rispetto alla lettura di uno criticabile, che ha la presunzione di aver trattato ogni ambito esistenziale, contro cui puoi combattere o schierarti, di cui sei costretto a farti un’idea tua perché ognuno ne ha una diversa? Ecco, credo che abbia a che fare con lo sviluppo del senso critico, e credo che in fondo, anche questo abbia a che fare con la responsabilità.
Indipendenza è il riconoscimento del fatto che è tua la responsabilità di giudizio e nulla ti aiuterà a sfuggirne, nulla può sostituire il tuo pensiero. Che la forma più grossolana di auto-umiliazione e auto-distruzione è la subordinazione della propria mente alla quella di un’altro, l’accettazione di un’autorità sul proprio cervello, delle affermazioni altrui come fatti, delle sue ovvietà come verità, delle sue imposizioni come mezzo per la propria coscienza e la propria esistenza.
Atlas Shrugged, mia traduzione
Adam Curtis dedica alla Rand e alla sua filosofia “oggettivista” la prima parte del documentario “All Watched Over by Machines of Loving Grace”. Porta alcune interviste e dichiarazioni che ho trovato interessanti.
https://vimeo.com/groups/96331/videos/80799353