Digitale e democrazia: perché mai un ebook dovrebbe occuparsi della democratizzazione del mercato editoriale?

Avete presente la storiella del professore che riempie un barattolo con delle palline da golf, poi con la sabbia e infine di vino?Mi è venuto in mente qualche giorno fa mentre leggevo l’ennesimo articolo sulla democratizzazione del mercato editoriale grazie all’ebook.

Parlando di digitale, abbiamo spesso calcato la mano su quanto l’ebook possa favorire la libertà di espressione dando voce a tutti, bypassando i  meccanismi del mercato e della distribuzione, permettendo al non profit di raccontarsi a bassi costi e senza intermediari.

Bella invenzione, l’ebook.

Nel frattempo Google interrompe i contratti con le librerie indipendenti (anche se la notizia è poi rientrata, vedi aggiornamento) Amazon  -che diventa sempre più importante anche per i piccoli editori italiani- rimuove 4000 titoli di indipendenti in USA, Apple lavora su un processo di pubblicazione chiuso dall’ideazione alla distribuzione, modello ‘o-con-noi-o-contro-di-noi’.

Bella invenzione l’ebook, anche per loro.

Ma sarà poi vero che all’ebook possa interessare qualcosa di democratizzare il mercato editoriale?
Davvero è possibile pensare che a questo strano accumulo di bit opportunamente districati e organizzati attraverso codice, CSS e file XHTML possa importargliene qualcosa di quel che fa?

Ancora una volta si corre il rischio di concentrarsi sul mezzo piuttosto che sul fine: su un ebook possono esserci parole più o meno democratiche, è possibile sostenere idee più o meno condivisibili, può essere utilizzato per scopi personali o collettivi. Può essere uno strumento di informazione come l’ennesimo anonimo file scaricabile in rete, aperto e chiuso in pochi secondi.

Non basta un ‘buon ebook’ a democratizzare alcunché.

E il barattolo? È lo spazio che abbiamo, quello delle opportunità. Di un mercato di recente sviluppo, dove grandi e medi attori ci permettono di muoverci più o meno agevolmente fra le loro maglie. Ma non sono spazi che possiamo dare per scontati: se potessero, si prenderebbero anche quelli.

Centro di Nascita Alternativa e parto naturale

Bernadette (o Bianca, come preferite) è nata al Centro di Nascita Alternativa al San Martino di Genova, un reparto sullo stesso piano delle sale-parto e di patologia neonatale,  in cui sono prevalentemente le ostetriche a gestire il parto in maniera naturale e in un ambiente il più possibile familiare.

Ora, visto che ogni volta che parlo di ‘parto naturale’ mi si risponde che A) è quello senza cesareo oppure B) che è quello senza epidurale, faccio un paio di precisazioni sul luogo, le regole e la diversa concezione del parto.

Al centro nascite sono ammesse donne sotto i 45 anni con gravidanze fisiologiche, esclusi i parti gemellari e sì: non si fa l’epidurale   e se richiesta durante il travaglio si viene subito trasferiti nel reparto ‘normale’. Non perché ‘tu donna partorirai con dolore‘, quanto perché intervento che deve essere eseguito da un medico, e comporta una diversa gestione del parto.

Sette stanze singole con bagno e vasca, fasciatoio, poltroncina e un letto che si trasforma da lettino per parto a letto normale. In questa stanza verrai ricoverata, sistemerai le tue cose, affronterai il travaglio con la sola persona prescelta accanto, il parto assieme all’ostetrica, il post-parto, e lì resterai con il tuo bambino per tutta la durata della degenza. Dal momento della nascita alla dimissione il bambino resta sempre accanto alla madre: ogni visita o intervento avviene direttamente in camera.

Spazi comuni con una sala da pranzo (non si mangia in camera e non si viene serviti a letto: i pranzi si consumano assieme), accesso consentito a marito e gli altri  FIGLI  dalle nove alle ventuno ma niente visite, eccetto un ‘breve saluto’ da parte dei soli nonni.

Prima del ricovero mi ero chiesta come mi sarei sentita a partorire (che non è cosa che avviene propriamente in silenzio…) con  un’altra donna magari con figli nella stanza accanto a sentire il mio comportamento poco -ehm- virile, ma realtà questa dimensione che da una parte ti garantisce privacy e dall’altra ti accomuna a persone che stanno vivendo la tua stessa esperienza  permette di comprendere meglio il parto e di lasciarsi andare: per la prima volta, al terzo parto, ho compreso che tutte le donne mugugnano, piangono o gridano, insultano il compagno l’ostetrica o il pargolo salvo poi dimenticarsi tutto subitaneamente nel momento in cui si ritrovano il bambino fra le braccia. Ora anche i miei figli lo sanno.

Le ostetriche tendono a spiegare nel dettaglio cosa sta avvenendo nel tuo corpo e quali sono i modi migliori per affrontarlo, rendendo la donna in primis -ma anche la coppia- attori principali delle scelte da fare. La stanza dove si viene ospitati è la ‘propria stanza’ dove si può affrontare in due, in assoluta tranquillità, il travaglio e il parto (a questo punto con la presenza dell’ostetrica) nel modo (e posizione) che più aggrada. Noi per esempio ci eravamo preparati una playlist musicale, essenze per profumare l’ambiente, oli per i massaggi, computer e chiavetta e cose per il bagno e doccia (volendo nel CNA c’è anche la vasca per il parto in piscina). In realtà sapevamo benissimo che tutte queste cose sono un ‘di più’, per controllare dolore ed emozione, ritardare il  momento in cui ‘si perde il controllo’ e il dolore e la frustrazione prendono il sopravvento. Un ultimo elemento per me fondamentale è il ruolo della persona che ti sta accanto, che non si lasci spaventare al primo dolore ma ti aiuti a ridimensionarlo e sdrammatizzarlo e non parta in quinta chiedendo anestesie e antidolorifici per la sua paura a vederti soffrire.

L’ultima domanda che mi viene posta è se non spaventa il fatto di non avere un medico e strumentazioni di emergenza accanto nel caso succeda qualcosa. Il CNA è a 5 metri da patologia neonatale e 10 dalle sale operatorie di emergenza, le ostetriche sono le prime a spedire dall’altra parte i parti che potrebbero dare problemi in una gestione personalizzata e a riconoscerlo dal minimo segnale.

Io sono stata ‘spedita dall’altra parte‘.

Dopo tre mesi di gravidanza fortemente medicalizzati,  in mano ai ginecologi e subendo scelte che non comprendevo o non avrei voluto fare non solo partorire al CNA ma essere seguita dalle loro ostetriche per gli ultimi (difficilissimi) dieci giorni di gravidanza è stato molto importante. Dalle ecografie, le medie e i percentili in cui Berni (Bianca) ed io non rientravamo mai siamo passati alle visite manuali, al metro per la misurazione della pancia, al monitoraggio anche per un’ora finché non si capiva il motivo delle presunte irregolarità (spesso solo il bimbo che si muove e il segnale che si perde).

Di mercoledì ho fatto l’ultimo controllo e il venerdì mi avrebbero ricoverato nel reparto ‘normale’ per l’induzione e l’eventuale cesareo. Salgo al CNA, saluti con le ostetriche e con la dottoressa responsabile del reparto. Ci abbracciamo. Diciamo che abbiamo fatto tutto il possibile, dico che ormai per me l’importante è che sicuramente entro la settimana la avrò fra le braccia. Mento un pochino dicendo che nascerà dove nascerà, è lo stesso. Mi viene detto che è il momento che ‘mi lasci andare’, che smetta di pensarci. Si ri-prova per la terza volta con il distacco delle membrane. Come le altre due volte esco che sto male, in testa il chiodo fisso che tanto è ‘dolore che non serve a niente’ e con Fabrizio, che mi ha accompagnato, decidiamo di renderla una delle giornate più belle della nostra vita. Andiamo a pranzo in un ristorante un po’ figo, ci facciamo un giro per il centro storico. Quando comincio a essere a pezzi andiamo a casa, Fabri mi fa i massaggi con l’olio (non c’ho più voglia di fare l’amore nonostante dicano che stimoli il travaglio, e ci siamo rotti di farlo a comando). Andiamo a cena dai figli che sono a casa dei nonni. Mi rendo conto che le contrazioni stanno cambiando e torniamo a casa, sotto la neve che ci mancava anche questa. Fabri dormicchia sapendo quel che lo aspetta, io ci provo ma il tempo fra le contrazioni è troppo ridotto. Chatto da in piedi facendo finta di star bene e sono felice, mia figlia sta arrivando, me ne rendo conto anche sentendo il collo dell’utero che si dilata ora dopo ora, tutto va bene. Alle tre sveglio Fabrizio che non me la sento più di star da sola e voglio farmi una doccia, gli dico che non voglio andare in ospedale prima delle sei di mattina, mettiamo la compilation a tutto volume per  gioia del vicino, siamo io e lui e nessuno ci rompe le scatole. Per un subitaneo lampo di genio chiamo l’ostetrica di turno al CNA per aggiornarla della situazione. Le spiego che ho le contrazioni ogni sette minuti, ma che mi fanno poco male. Che ho deciso che alle sei mi muovo, e non prima. Poi le dico che è il terzo parto. L’ostetrica mi dice di venire subito, che il terzo parto è più veloce. Le dico che no, che sto troppo bene io di casa non mi muovo. L’ostetrica mi fa presente che nevica, mi dice di muovermi. Io penso ‘non mi avrete mai’, sono terrorizzata, ‘solo per un controllino’ dice lei e io penso a Buzzati e al suo ospedale di sette piani. Le dico che mi faccio una doccia, vada per la doccia, poi però faccia un salto qui. Faccio la doccia cantando ‘All the MadMan’ di David Bowie, ci sto almeno mezz’ora e poi veramente andiamo in ospedale. In auto le contrazioni sono ogni quattro minuti.

Arriviamo in ospedale alle quattro, prima  di ricoverarmi al CNA mi fa fare il monitoraggio di rito, grazie al cielo in poltrona.

Le contrazioni ci sono, ma io continuo a pensare che mi stanno facendo troppo poco male, le altre volte soffrivo di più. (nel lettino in posizione supina). Io sono molto tranquilla. Il monitoraggio però dura un’ora, che è tanto, al termine  l’ostetrica prende un foglio e chiama il ginecologo di reperibilità. Capisco che mi ‘sbatteranno fuori’ c’è qualcosa che non va. Amen, comunque non ho paura.

Arriva il ginecologo ed effettivamente  mi spiegano che il tracciato del battito cardiaco non è ottimale e che preferiscono tenermi sotto controllo dall’altra parte. Per me ormai va bene tutto, tanto più che tutti mi spiegano tutto con estrema tranquillità, arriva una terza ostetrica dalla sala parto normale, mi dice che molto probabilmente la bambina ha il cordone ombelicale attorno al collo, che capita ma che per questo a ogni contrazione il battito scende e stenta a recuperare. Il ginecologo dice che va ancora bene, vuole solo che sia monitorato, lui interverrà solo in caso di emergenza. Se sarà un parto veloce non ci sarà bisogno di lui. Ok, adesso balliamo penso. Sono le sei e Bianca (Berni) nasce alle otto. L’ostetrica ha capito che non volevo stare sul lettino e quale fosse la posizione per me più indicata, e ho partorito accucciata per terra con Fabrizio che mi sosteneva dal dietro. Ogni tanto il ginecologo faceva capolino dall’ingresso, ma non è mai entrato. Ho sentito la testa (l’ostetrica ha tolto il cordone che le stringeva effettivamente il collo), poi ho visto Berni (Bianca) uscire dalla mia pancia e scivolare sul tappeto che mi avevano messo davanti, era tutta blu e ho passato un minuto di vero terrore perché pare non usi più colpire i bambini e aspirargli naso e bocca ma solo coprirla per scaldarla finché lei autonomamente sputacchiando e starnutendo ha fatto da sola il suo primo vagito. Mi sono permessa di interrogare ogni singola persona perché mi pare il meno conoscere nome e ruolo di chi mi vede con le gambe aperte, ‘Chi sei tu?’ ‘Infermiera pediatrica, complimenti sua figlia  è bellissima’ ‘E lei chi è?’ ‘Ginecologa’ ‘E’ molto giovane’ ‘Sono specializzanda, al secondo anno’ ‘E lei con il giubbotto del 118 invece cosa vuole da me?’ ‘Le devo mettere la cannula per il prelievo di sangue’ (mica me l’ha detto che ruolo aveva) e via dicendo finché non mi hanno riportato al CNA  che anche se non ho partorito lì mi hanno permesso di continuare il percorso, e alle dieci ero nella sala comune, con lei, Fabrizio, una coppia alle prime fasi del travaglio a pensare che cazzo di modo assurdo di mettere al mondo dei figli che ci hanno propinato, e sotto-sotto a ridere pensando che era l’avventura più bella che avessi vissuto in tutta la vita.