Voglio essere cresciuto ‘alla luce della scienza e della tecnologia’

Nicco figlio decenne guarda il mio pancione con aria assorta, poi esclama ‘Sai mamma, questo bambino che deve arrivare, vorrei che lo tirassimo su alla luce della scienza e della tecnologia‘. China la testa come se non avesse detto niente e riprende a mangiare.

Resto interdetta: in una casa dove vi sono più computer che teste pensanti il passaggio dal medioevo all’età dei lumi l’ho sempre dato per scontato, e poi… già un figlio si trova a dover combattere con le aspettative dei genitori, ma che un terzogenito che se la dovesse vedere anche con quelle dei fratelli maggiori non lo avevo immaginato.

In realtà il discorso procede più avanti, quando entrambi siamo in grado di gettare un ponte fra i nostri pensieri, e di trovare le parole per raccontarli.

E quando lo ascolto capisco di non aver compreso nulla.

Mi spiega che non può far a meno di farmi notare –senza offesa– che non è il numero di computer, il loro utilizzo professionale o l’essere in grado di destreggiarsi fra novità tecnologiche, tecniche di comunicazione e relazioni virtuali a rendere un adulto adatto a ‘comprendere le esigenze di un nativo digitale’ (l’espressione è mia e nemmeno mi piace): gli adulti sono di una generazione precedente alla sua, lui la tecnologia la sta usando ‘ora’, la ha sempre usata, e sa meglio di me come vada raccontata, comunicata.

Io la ‘spiego’: lui la sperimenta.

Parliamo di pen-friends: racconto dell’amico di penna della mia infanzia, delle lettere scritte a mano con gli adesivi colorati e i disegnini e i cuoricini, l’acquisto del francobollo e la buca della posta e poi l’attesa della risposta (che in questo caso durava mesi: il mio amico di penna stava in Romania, e oltre che con la lentezza delle Poste dovevamo vedercela con la censura). Lui non si stupisce e “Bene -risponde- io e il mio amico L. di Roma ci scriviamo in giornata, se vogliamo chattiamo, e penso che ci conosciamo molto meglio di quanto tu potevi conoscere il tuo amico di penna. Stiamo scrivendo un romanzo a quattro mani: un file condiviso su Googledocs e ci possiamo lavorare entrambi in qualsiasi momento. Tu non capisci che questa è una cosa ‘normale’: non la devi spiegare a un bambino, come non mi hai mai spiegato come si sale su un autobus. E non devi strabuzzare gli occhi come se stessi parlando del futuro o di qualche tecnologia che, mi spiace per te, ai tuoi tempi non esisteva. La hai imparata”.

Parliamo della rappresentazione dell’infanzia nella letteratura per ragazzi: narrativa scritta da adulti che raccontano come si immaginano che possa essere il mondo vissuto da ragazzini ipertecnologizzati (o peggio: che enumerano, con presunte finalità educative, rischi e difficoltà dell’utilizzo dei nuovi media). Perché bisogna raccontare che il protagonista parla al cellulare con i suoi amici? Ha tredici anni: anche se non lo si dice espressamente, lo avrà certamente in tasca il telefonino. Chatta su Facebook e guarda video su Youtube? Sarebbe una notizia se non lo facesse. Queste son cose così intime e scontate che nemmeno se ne deve parlare.

So che io per prima se dovessi scrivere una fiaba con protagonista un bimbo che scrive un romanzo a quattro mani con un altro ragazzino che vive a 500 km di distanza non potrei che farne il centro della trama, soggetto emblematico dei tempi che cambiano. Per Nicco non è altro che sfondo: colore, vita quotidiana. Parole inutili che non permettono di proseguire nel raccontare ciò che è veramente importante: di che paure e di quali sogni ‘attuali’ scrivono due bambini di dieci anni, su googledocs o su quaderno a quadretti?

Non posso crescere un figlio ‘alla luce della scienza e della tecnologia’ perché la scienza e la tecnologia mi stupiscono quotidianamente per quel che mi stanno pemettendo di fare, e le mie parole se ne vanno nel raccontare questo stupore, nell’inquadrare possibili utilizzi e ipotetici pericoli. Potrà farlo solo chi non avrà bisogno di parole per raccontarlo: per coloro che per cui la rete non sarà più oggetto di discussione, e sentirne parlare… una noia infinita.