‘Ma tu che tanto parli di concretezza, che ci fai con un ereader?’

Ultimamente persone della real life mi fanno spesso questa domanda, ribadendo che l’ereader… insomma: è l’ultima moda da fighetti, l’ennesimo gingillo tecnologico e pure caro, che ci faccio io con un aggeggio del genere?

Allora eccomi qui a fare un passo indietro, per poter andare avanti.

L’ereader, a mio parere, è estremamente concreto. Come diceva Fabrizio serve solo per leggere, non puoi farci molto altro, non puoi fregare. Se compri un ereader ci metti dei libri, testi, contenuti, ti stacchi dal mondo iperconnesso e iperattivo.
Come i libri?‘, si, proprio come i libri. ‘E allora non ti bastano quelli?‘.

Potrebbero bastarmi ma non mi bastano, per due motivi.
Il primo è che sono discretamente senza soldi e non credo che la situazione cambierà. I libri sono un investimento che non sempre posso permettermi. Già adesso (purtroppo ancora ‘accontentandomi’, che quel che voglio non me lo digitalizzano sempre), posso leggere diversi libri a settimana a costi estremamente contenuti. E sono convinta che i prezzi caleranno sensibilmente, e così quelli degli ereader.

Il secondo motivo è che gli ebook sono ‘veloci’, al passo con le discussioni che avvengono nel mondo, e con i miei interessi. Io rinfaccio al mondo dell’informazione uno spreco giornaliero di tonnellate di carta che finiscono al macero dopo che, di un quotidiano, ne viene letta solo una minima parte. Con gli ebook mi cerco, mi trovo e mi scarico materiale dal web con maggior approfondimento, estremamente più mirato, tempi più rapidi e schivando ciò ch non mi interessa.
Purtroppo anche questa è una cosa che gli editori non hanno ancora compreso molto bene: va be’, ci penseremo noi di Quintadicopertina, che il 2011 sarà per noi un po’ ‘l’anno dell’informazione‘.

E qui passiamo al punto di vista di chi ha deciso, fra le altre, di proporsi come editore di contenuti digitali, e non solo di lettrice.
L’ereader, come editore, mi offre due grandi opportunità: mettere al centro i contenuti e lavorare attorno a questi, per trovare un meccanismo sostenibile, per me, per il lettore, e per chi scrive, che dia valore al testo, e non solo al contesto.

Infine, posso trovare e costruire un nuovo meccanismo di produzione e distribuzione. Che si liberi della diffusione nelle librerie e dai camion di trasporti, che non sia stretto dalla difficoltà economiche di piccoli editori e libere associazioni impegnate in azioni di informazione specifici, con target definiti ma sparsi sul territorio.

Una risorsa insomma, per raccontarsi ancor meglio l’esperienza del mondo.

Regole e responsabilità, amiche o antagoniste?

Dopo aver espresso le mie perplessità sull’obbligo di ‘ritirare’ personalmente i figli a scuola, ho ricevuto, a voce, diverse risposte che mi hanno spinto ad approfondire.

C’e chi mi ha indicato una differente concezione del figlio come bene (in termini affettivi) e valore da proteggere da cui non ci si aspetta un ritorno, contrapposta a quella di cinquant’anni fa in cui la prole era una risorsa e un investimento anche in termini di produttività. Altri si sono concentrati sul concetto di responsabilità dell’adulto verso il minore non dotato di autonomia, e quindi personalmente non responsabile.

Un’amica insegnante ha parlato della responsabilità dei genitori di verificare la presenza scolastica, rimandando ad altri momenti (quando non sia coinvolta la scuola) il compito di educarlo ad un’autonomia sempre maggiore; questa considerazione a dir la verità mi ha spinto ancor più a pensare che il discorso riguardi più che la responsabilizzazione dei genitori, la de-responsabilizzazione dell’istituto scolastico in caso di grane. L’amica ha chiosato raccontandomi che nella scuola media dove insegna per contrastare l’abbandono scolastico si è scelto di obbligare i genitori a portare e venire a prendere i figli fino a 14 anni.

Ne ho poi parlato con un’altra ex-insegnante, che si è indignata per questa soluzione che non affronta le cause della dispersione scolastica ma ‘scagiona’ la scuola dalle sue responsabilità e eventuali incapacità di coinvolgere e studiare un percorso per quel 0,70% circa di studenti che abbandonano nel corso delle medie (fonte INDIRE). Se il genitore non è partecipe del percorso scolastico del figlio, questo non frequenterà l’istituto; se il genitore collabora esclusivamente facendo il servizio-taxi e la scuola non affronta la situazione di disagio, il figlio potrebbe andare ad arricchire quel 20% (contro una media europea del 10%, sempre INDIRE) che non arriva al diploma. Ma la ‘regola’ è rispettata. La regola non è in grado di incentivare una riflessione qualitativa sul lavoro svolto. Anzi: deresponsabilizza l’istituto scolastico per cui la lotta alla dispersione scolastica è valutata in termini di quantità di crocette di presenza da apporre sui registri nel corso dell’anno.

La regola deresponsabilizza?

Frequentando un carcere da una decina di anni, il tema della norma e del suo rispetto emerge prepotentemente ogni volta che si rifletta sul senso delle attività proposte. Qualche anno fa Franco Corleone, Garante dei diritti delle persone recluse di Firenze, aveva evidenziato la necessità di incentivare quel minimo spazio di autonomia decisionale che resta ad una persona reclusa, in un luogo dove tutto è deciso e si richiede il rispetto di infinite norme che regolano anche l’aspetto più banale della vita quotidiana.

L’uomo (e il bambino) può imparare a prendere decisioni su se stesso e ad agire nel rispetto dei valori della società solo nello spazio di libertà necessario per operare una scelta. Non è il rispetto della regola, quanto l’adesione spontanea ai valori che essa rappresenta a essere giustizia (F. Reggio, Giustizia dialogica. Luci e ombre della Restorative Justice): se le regole definiscono ogni campo della vita, e l’unico dovere è rispettarle, l’individuo si adatta pedissequamente, e non si può elaborare capacità di giudizio.

Infine, una risorsa per la riflessione sull’importanza delle regole è il saggio Regole, Perché tutti gli italiani devono sviluppare quelle giuste e rispettarle per rilanciare il paese, di Roger Abravanel e Luca D’Agnese: non ho ancora avuto il piacere di leggerlo, ma ha una interessante community su Facebook che propone quotidianamente spunti di riflessione.

E adesso vado a comprare il libro!

Aborto

Uno dei problemi dei pronto-soccorso ai giorni nostri è che tutto è organizzato per funzionare più velocemente e praticamente possibile: come una catena di montaggio, in cui ogni ingranaggio conosce perfettamente il suo compito, e poco sa di quel che è successo prima o succederà dopo.
Tu entri (sei in una città molto distante dalla tua, e sei sola: per un caso sei riuscita a farti indicare un posto fidato dove andare, ma non conosci nessuno) e parli con una signorina, e le spieghi quel che è successo.
Il momento seguente ti trovi a una scrivania, dove una gentile infermiera ti chiede la data delle tue ultime mestruazioni, poi ti dice la presunta data di nascita, e se vuoi anche il giorno in cui comincia l’astensione obbligatoria dal lavoro. Sorride. Ti dice che il foglietto stampato te lo lascia, per ricordo. Confusamente pensi che se sei lì è perché qualcosa non va, che tanto entusiasmo forse è inopportuno, ma devi passare al livello seguente, quello più importante.

La ginecologa che fa l’ecografia ti fa capire subito che alle domande devi rispondere, non farle. E’ molto professionale. Quando la sonda va nel posto giusto riconosci subito quell’esserino che ha testa, corpo, gambe a penzoloni e quasi ti pare di vedere un braccio sul petto. Forse è fantasia. Il fatto è che sai benissimo che sotto l’immagine c’è una linea retta, e un rumore di fondo confuso, di televisore non sincronizzato. Di solito quel rumore prende a trasfomarsi in un continuo ‘pow-pow-pow-pow’, che quasi ti fa venire le lacrime agli occhi, e la linea prende a danzare.
Però prima che tu metta a fuoco il tutto, la dottoressa passa sull’ecocolor, si vedono i colori blu e rosso: è il flusso del sangue. Riconosci il percorso del cordone. Però, di nuovo, visto che non è la prima volta, vedi che il colore si ferma al termine del cordone e non va oltre. Di nuovo non metti a fuoco i pensieri che la dottoressa ti chiede se hai figli e quanti anni hai. In verità quando ti dice che sei ancora giovane hai già capito che ciò che hai visto è solo l’ombra di quel figlio che ti faceva tanta paura avere, ma per cui avevi già comprato la lana per i primi golfini.

Esci di lì e chiami il tuo uomo a cinquecento chilometri di distanza: spieghi tutto con calma e razionalità, gli dici che non era proprio il momento giusto, che è tutto esattamente come dicevi tu (sentendoti un po’ in colpa perché lui invece ci aveva creduto e sperato dal primo istante). Gli dici che non hai paura di niente, e bisogno di nessuno. Che se non fosse stata solo un’ombra allora sì, sarebbe dovuto venirti a prendere, ma che visto che non c’era più nulla da fare, tornartene a casa da sola sarebbe stato il male minore. Che andava tutto bene. Che tutto era a posto. Finché sta dentro siete entrambi al sicuro, pensi.

Poi la notte ti svegli che hai le contrazioni come se dovessi partorire. In realtà sono meno forti ma c’è più nausea: è un dolore continuo. Visto che sai che è solo un’ombra cerchi di dormire e di nascondere tutto nell’incoscienza del sonno. Sei completamente rincoglionita quando prendi un asciugamano, e poi un altro e infine un terzo, sai solo che vuoi che quel momento passi più in fretta possibile.

Poco dopo -è già mattina- ti alzi per il dolore e ti rendi conto che l’ombra sta uscendo, che è bianca, piccola, ma completa: la testa, il corpicino, e le braccina conserte sul petto.
Non sei a casa tua, e ti ritrovi a coprire le tracce del tuo passaggio lavando il pavimento con l’amuchina con cui prima disinfettavi le verdure per non prendere infezioni.
Le ultime cose che ricordo sono me china in bagno con un barattolo di Multicentrum Materna con acido folico (per la corretta crescita del feto) che snocciolo un rosario di pillole nel cesso, recitando un silenzioso ‘vaffanculo’ per ogni ‘tonf’ nell’acqua.

Quattro chili in meno e mezz’ora dopo ero di nuovo al pronto soccorso, dove non c’era la dottoressa consigliata, ma mi regalavano un pacchetto di assorbenti post-parto e mi dicevano di farmi vedere dal mio medico curante. E poi c’è Fabrizio che mi viene a prendere per portarmi dal medico curante a cinquecento chilometri di distanza, facendo la via crucis più pesante della nostra vita, sostando in ogni autogrill presente sulla Roma-Livorno-Genova e parlando di quintadicopertina, di TAG semantici e di informazione digitale.