Considerazioni pindariche sparse sul digital storytelling a partire da “Digital story-telling la fabbrica delle storie” di Cristian Salomon(3/4)

Provo da tempo una viscerale antipatia per l’espressione ‘storytelling’, principalmente perché sono emotivamente legata al corrispettivo italiano, ‘narrazione’, che è capace di creare un legame fra racconto e l’agire nel mondo. Prima si narra, si rielabora, si impara, ci si confronta e poi infine si agisce, mi pare un concetto bellissimo.
Anteposto il ‘digital’ al modaiolo ‘storytelling’ mi è parso il tentativo di utilizzare una sorta di drammatizzazione del termine stesso, quasi per aggiungere un sapore di novità e di esotico, ad una pratica che si utilizza da millenni.
In realtà, le cose non sono così semplici.

La premessa da cui parte Cristian Salomon nel suo ‘Digital storytelling: la fabbrica delle storie‘ è simile: introduce subito il discorso spiegando che la narrazione fa parte dell’uomo da millenni, e che il potere abbia sempre eccelso nell’arte di raccontare storie per accumulare consenso non è poi una novità.
Eppure, per l’autore, l’utilizzo della narrazione nella comunicazione politica, nel marketing, nel management e nell’industria bellica (sono i capitoli da lui affrontati) rappresenta qualcosa di ‘nuovo’, inquietante e tendenzialmente spaventoso.

Condivido appieno i ‘timori’ di Solomon, ma mi auguro che si possa fare un passo in avanti per affrontarli.

Nel capitolo ‘Dai loghi alle story’ Solomon propone una storia dell’evoluzione del marketing durante la quale si è passati dal ‘marchio’ al ‘brand’, per arrivare infine ad utilizzare le storie dei clienti, i loro stessi dialoghi, per rappresentare un prodotto e fidelizzare la clientela. Alla fine, all’azienda non interessa la storia dell’utilizzatore finale, ha solo imparato a manipolarne i discorsi.

Nel marketing come nella politica, si fa colpo su quel che l’autore definisce l’ ‘ego emotivo‘, spettacolarizzando, drammatizzando o comicizzando la narrazione (la ‘formattazione dei desideri e propagazione di emozioni’). Ci vengono mostrati dei ‘miti’ emotivamente affascinanti e socialmente accattivanti, e ci danno la possibilità di essere come loro e svelarci nei nostri particolari più intimi. Operazione simile a quella del più grande storyteller italiano (qualcuno lo ha già pensato) che ha inviato nel 2001 nelle case degli italiani una narrazione fotografica volta a rappresentare il mito della famiglia italiana ricca, bella e fortunata e spiegandoci che saremmo tutti potuti diventare come lui.

Davanti ai miti splendenti che ci vengono mostrati in rete (ma anche in televisione, o sui poster pubblicitari), la nostra vita quotidiana risalta di una luce mediocre. Però è la nostra vita che è vera, e mi viene da azzardare che chi sposta il dibattito da un contenuto alla rappresentazione mitizzata della propria figura finisce per essere colpito, non solo metaforicamente, nella sua stessa persona, avendo messo i contenuti in un piano secondario ed accessorio. Una comunicazione emozionale non può essere contraddetta o oggetto di dibattito, solo accettata o rigettata.

Ritornando un’ultima volta sul libro di Solomon, mi ha fatto sorridere la descrizione dell’utilizzo dello storytelling all’interno delle aziende dal management come strumento di potere nei confronti dei dipendenti. Ho pensato -banalmente- come gli stessi dipendenti siano assolutamente in grado, e non da oggi, di raccontare ai loro

superiori le storie che questi volessero sentire, o di rappresentarsi come si sa che l’azienda li vuol vedere. Se tutti raccontano e utilizzano storie, perché non lo dovrebbero fare anche loro?

Se -come da sue stesse premesse- l’arte di affabulare è la stessa ed antica, allora sono tecniche e strumenti ad essere cambiati.
Drammatizzare e portare la comunicazione a livello emotivo si fa solo in rete? Non mi pare. Allo storytelling la rete aggiunge solo il ‘digital’, ovvero lo strumento. Ridimensionando in tal modo la sua importanza, e mettendo in rilievo gli elementi che rendono vitale una narrazione, un racconto di vita.

(Vedi Centers for digital storytelling).
Cristian Salomon ipotizza che il digital storytelling possa rappresentare, oltre che uno strumento del potere, uno strumento di lotta contro il potere. Io mi domando se sia più che altro possibile spostarsi dal ‘luogo delle emozioni’ e rientrare in quello della razionalità, ritrovando alcuni elementi fondanti della narrazione di una storia di vita.

Per esempio, da un punto di vista storico e sociologico, l’attenzione alla veridicità di ciò che viene rappresentato, che può essere ‘emotivamente reale e sentito’ ma non avere un valore storico: vecchi discorsi che si facevano al tempo dell’università su come utilizzare le fonti orali.

Poi, l’integrazione in un contesto della personalizzazione di un racconto in prima persona, per passare da un piano individuale ad uno collettivo.

Ed il valore pedagogico e proattivo della narrazione e della storia di se’ (uch, qui la sparo grossa). Chi narra ed espone la propria esperienza, cresce raccontandola e razionalizzandola, e soprattutto attraverso il confronto con l’altro. In tal modo il proprio vissuto è bussola per una azione politica e contributo per l’agire sociale.

Cose vecchie, che possono servire ancora anche nel ‘digital’.

Le fotografie a margine sono state scattate durante la campagna elettorale croata 2010.

Eretici digitali – la rete è in pericolo, il giornalismo pure. Vittorio Zambardino e Massimo Russo (2/4)

Oltre all’interessante progetto che sta dietro questo libro, apprezzo il fatto che sia disponibile in ebook: lo compro on line e dopo qualche minuto lo sto leggendo sul mio Cybook. Peccato che non posso sottolineare (cosa che sarebbe stata possibile se lo avessi messo sull’Iliad, ma è in uso al consorte al momento), ma posso mettere i segnalibri e la funzione è utile.

Comunque: se prima avevo un ‘sentimento di malessere’ nei confronti della rete, il libro mi aiuta a identificarne le cause e dar loro un nome. Entra di petto nel dibattito su rete e informazione e con dovizia di particolari espone i punti critici e i nodi su cui si gioca la battaglia dell’informazione nel web. Con un linguaggio chiaro comprensibile anche da chi non conosce a fondo i meccanismi della rete. Partendo dalla demolizione di tre dogmi fondamentali (quello del potere, che tende a legittimare solo il racconto del media che gli da consenso, quello della corporazione, che scambia il supporto (la carta) con il giornalismo, e quello del digitale, che incapace di vedere i pericoli dello strumento) gli autori formulano un quadro completo dell’informazione e della crisi del giornalismo nella rete, mostrandone cause, criticità attuali e proponendo ipotesi.

Ad esempio, scopro che effettivamente c’è da domandarsi ‘chi’ detiene il potere nella rete, e di conseguenza chi attribuisce il valore alle cose e ai contenuti, mettendo in evidenza le difficoltà di rapporto fra chi ha la gestione delle piattaforme (i cosidetti ‘padroni dei tubi’) e chi produce i contenuti. “Alla disgregazione digitale sopravvivono i vecchi mediatori (le aziende di telecomunicazione) e i nuovi doganieri (i motori di ricerca)”. Essi non producono contenuti, ma sopravvivono grazie a loro, e si trovano nella sconcertante posizione di avere anche la possibilità di stabilirne il prezzo. Speriamo che vi sia ancora tempo e spazio per un po’ di concorrenza.

L’analisi su Google poi è veramente spiazzante: in questa rete libera dove le parole e le persone possono confrontarsi e conversare, chi effettivamente permette che questo scambio sia libero? Google, motore di ricerca utilizzato dall’ottanta per cento circa della popolazione europea, potrebbe domani decidere che essendo io suo concorrente non posso più comparire fra i suoi risultati(e pare che qualcosa del genere sia già accaduto)? Chi controlla le regole del gioco, chi conosce i parametri di indicizzazione di Google?

Altre veloci annotazioni (ce ne sarebbero molteplici da fare, ma è meglio che vi compriate il libro), riguardano la privacy, trattata sia nell’utilizzo che subiscono i nostri dati personali nel mercato pubblicitario, quanto sulla possibilità decisionale dei navigatori e di chi nel web scrive a qualsiasi titolo, di stabilire cosa, a chi e per quanto tempo possa essere visibile un proprio contenuto.

Narrazioni perse nella rete: dubbi di capo d’anno (1/4)

Avvertenze: Questo post è una introduzione ai prossimi tre che verranno. Non è leale o produttivo, ma questa volta mi venuta così.

Termino il 2009, per me prolifico in termini di web e scrittura, in preda ad una indigestione di presentazioni in .ppt e riunioni intersettoriali, tentativi di mediare fra ciò che si vorrebbe fare nel web e quello che gli altri credono sia giusto fare nel web. Non ne posso più della rete.

Il risultato è il riaffiorarsi di dubbi e timori da niubba: e se il web non fosse altro che una grande televisione e ne riproducesse gli stessi meccanismi, e se la capacità di utilizzare certi strumenti non avesse in fondo più importanza rispetto al contenuto del messaggio, al fine di spostare attenzione e quindi il luogo del dialogo? Cresciuta alla luce del cluetrain manifesto mi domando se siano poi così spontanee queste ‘conversazioni nella rete’. CHI da visibilità a COSA? E cosa crea valore: l’applicazione, il portale che da visibilità o il contenuto? E come determinarne la qualità?

Perché, discutevano su it.scienza.medicina, se si digita ‘vaccini’ su google, fra i primi quindici risultati sei parlano di terapie alternative o li vedono come cospirazioni governative, risultato non è paragonabile alla percentuale di favorevoli o contrari nel dibattito scientifico nella ‘real life’? La visibilità in rete rispecchia la credibilità? Per far apparire abbiamo imparato a drammatizzare, comicizzare, enfatizzare, utilizziamo buone tecniche video, strumenti di web editing, storytelling (oh, questo merita un capitolo a parte, vedi sotto…): alla fine vince chi è più bravo a utilizzare lo strumento o chi ha il concetto più interessante da raccontare?

Il risultato è che arrivo a pensare di aver sbagliato lavoro, o meglio di aver bisogno di vacanze.

Parto allora con tre libri sotto braccio: ‘Eretici digitali’, ‘Storytelling la fabbrica delle storie’ e ‘Crossmedia-le nuove narrazioni’. (la scelta dei titoli è parzialmente casuale: avrei potuto sceglierne altri ma mi sono capitati sotto mano questi tre).

Nei prossimi post come le letture hanno contribuito a identificare i miei dubbi.

Scommettere ora sull’editoria digitale: pazzìa e desiderio

Interessante l’articolo di Giuseppe Granieri L’editoria prossima ventura (La stampa, 10 gennaio 2010): interessante perché, in un periodo di attesa in cui si tende a non esporsi e non scomporsi, si lascia andare a qualche (certo generica) previsione.

Alcuni elementi da lui citati sono certamente confortanti. Ad esempio, il calo di margine per chi investe esclusivamente su nomi già noti (e le possibilità che si aprono per chi scommette sulla novità), poi l’aumento di domanda di ebook con contenuti speciali (eh sì, nuova tecnologia, nuovo modo di rapportarsi alla scrittura, nuove forme e nuove possibilità. Ecco perché non mi appassiona la digitalizzazione di vecchi cataloghi cartacei).

Si accenna anche al nuovo rapporto che si potrebbe venire a creare con l’autore.

A questi elementi aggiungo qualche considerazione:

> Il rapporto con l’autore è certamente nuovo e maggiormente collaborativo. La creatività infatti non si limita al testuale, quanto all’utilizzo stesso dello strumento. L’autore elabora delle proposte cui l’editore può non aver pensato, e che devono essere testate e valutate da entrambi. Il suo compito non termina con l’uscita del titolo: come editore, in pratica ‘giochiamo assieme’, e poi ‘giochiamo’ con i lettori. E visto che l’autore mi permette di giocare con lui ed è compartecipe del gioco, il ruolo è più ampio, i diritti sono più alti.

> Un nuovo tipo di marketing. Salta un certo tipo di distribuzione, si modificano i canali di promozione e comunicazione ufficiali (e un po’ di rivoluzione anche in questo non è certamente un male). Poco mi interessa di comparire nelle pagine ufficiali di narrativa e critica (poco, non nulla!). Con un pubblico di lettori ‘digitali’ devo trovare un luogo d’incontro che è più vicino a casa loro che a casa mia. Non bastano ‘manifesti’ affissi per le strade per catturare l’attenzione, devo cercarli e magari chiedergli se il prodotto piace o come lo vorrebbero. Non mi verranno mai a cercare da soli.

> Un nuovo rapporto con i lettori. Il tramite fra chi scrive e pubblica e chi legge non sarà più solo la libreria. Per l’editore, basta copie prenotate, fine dei commenti a caldo del rappresentante. E per il lettore fine del confronto con il libraio di fiducia (per chi lo avesse ancora). E’ l’editore stesso che deve essere in grado di raccogliere, cercare e incentivare critiche, commenti e consigli.

> Una nuova riflessione sul prezzo, la consapevolezza del lettore della catena di produzione del prodotto. Come utenti della rete ci stiamo abituando a considerare gratuiti molti contenuti, spesso anche di qualità. Da una parte si sa che i costi con l’editoria digitale dovrebbero essere sensibilmente abbattuti (costo della carta, della distribuzione, della libreria…), ma d’altra parte non si ha una chiara idea di quali siano gi altri costi (chi per esempio è a conoscenza del fatto che l’iva sugli ebook è al 20% contro il 4% dei libri tradizionali?). E nel momento in cui chiediamo agli autori un impegno differente sul lavoro del testo, quale è la quota di diritti ‘percepita come giusta’ da autore, editore e lettore?

Il lettore, in fin dei conti, è colui che decide di scommettere sull’ebook che compra. E vorremmo che scommettesse su tutta la casa editrice, sul progetto, che si affezionasse all’idea. Ma per farlo, ha tutto il diritto di conoscerla.

Questa ultima riflessione sul prezzo però richiede tempo ed attenzione. E un post tutto per se’.

Tempo di bilanci, anche per noi della generazione flessibile

Natale è tempo di bilanci (si lo so sono un po’ in ritardo, aspettatevi i prossimi post su capo d’anno e la befana poi mi rimetto a regime).

Non so come mai -forse mia suocera che va in pensione, forse un nuovo cambio di rotta lavorativa- decido di approfondire la mia vita da contribuente. Non l’avessi mai fatto: l’ignoranza in questo caso è una buona compagna, basta avere la consapevolezza che si lavorerà finché testa e corpo lo permetteranno.

Comunque: cominciando a lavorare a 19 anni, avendone adesso 34, e avendo passato qualche periodo di ‘pausa di riflessione’ nei periodi delle nascite dei miei figli mi ritrovo adesso:

> due ‘stagioni’ da nove mesi l’una di contributi versati presso l’ENPALS (Ente Nazionale Previdenza Lavoratori dello Spettacolo, chissà se esiste ancora). E no, trattenete la vostra fantasia, niente di troppo ‘artistico’: la qualifica era ‘allievo tecnico macchinista’, ma intanto potevo frequentare l’università.

> 4 anni (naturalmente non consecutivi) come dipendente, contributi presso l’INPS (nove mesi part time).

> 4 anni come collaborazione continuativa (non esistevano ancora i cocoprò, ma il senso era quello) con qualcosa tipo il 12% o forse meno, ho usato il foglio per dar fuoco al camino, alla Gestione Separata INPS;

> 2 anni e 2 mesi con partita IVA, con 24% versato all’INPS, gestione separata liberi professionisti, che spero sia la stessa gestione separata di cui sopra perché se non hai almeno 5 anni di contributi sono soldi gettati al vento.

> Nel conteggio dei periodi mancano un annetto circa di prestazioni occasionali e rapporti casuali non protetti dal regime pensionistico, quindi non valgono niente.

Adesso, visto che amo la vita difficile, sto per aprire l’ennesima posizione INPS nella gestione commercianti, probabilmente obbligata a tenere aperta anche quella come consulente.

Ora, io sono diventata ‘flessibile’, -cosa che peraltro non mi spiace particolarmente- ma costerebbe tanto all’INPS permettermi di riunire tutti questi contributi in un unico calderone?