Provo da tempo una viscerale antipatia per l’espressione ‘storytelling’, principalmente perché sono emotivamente legata al corrispettivo italiano, ‘narrazione’, che è capace di creare un legame fra racconto e l’agire nel mondo. Prima si narra, si rielabora, si impara, ci si confronta e poi infine si agisce, mi pare un concetto bellissimo.
Anteposto il ‘digital’ al modaiolo ‘storytelling’ mi è parso il tentativo di utilizzare una sorta di drammatizzazione del termine stesso, quasi per aggiungere un sapore di novità e di esotico, ad una pratica che si utilizza da millenni.
In realtà, le cose non sono così semplici.
La premessa da cui parte Cristian Salomon nel suo ‘Digital storytelling: la fabbrica delle storie‘ è simile: introduce subito il discorso spiegando che la narrazione fa parte dell’uomo da millenni, e che il potere abbia sempre eccelso nell’arte di raccontare storie per accumulare consenso non è poi una novità.
Eppure, per l’autore, l’utilizzo della narrazione nella comunicazione politica, nel marketing, nel management e nell’industria bellica (sono i capitoli da lui affrontati) rappresenta qualcosa di ‘nuovo’, inquietante e tendenzialmente spaventoso.
Condivido appieno i ‘timori’ di Solomon, ma mi auguro che si possa fare un passo in avanti per affrontarli.
Nel capitolo ‘Dai loghi alle story’ Solomon propone una storia dell’evoluzione del marketing durante la quale si è passati dal ‘marchio’ al ‘brand’, per arrivare infine ad utilizzare le storie dei clienti, i loro stessi dialoghi, per rappresentare un prodotto e fidelizzare la clientela. Alla fine, all’azienda non interessa la storia dell’utilizzatore finale, ha solo imparato a manipolarne i discorsi.
Nel marketing come nella politica, si fa colpo su quel che l’autore definisce l’ ‘ego emotivo‘, spettacolarizzando, drammatizzando o comicizzando la narrazione (la ‘formattazione dei desideri e propagazione di emozioni’). Ci vengono mostrati dei ‘miti’ emotivamente affascinanti e socialmente accattivanti, e ci danno la possibilità di essere come loro e svelarci nei nostri particolari più intimi. Operazione simile a quella del più grande storyteller italiano (qualcuno lo ha già pensato) che ha inviato nel 2001 nelle case degli italiani una narrazione fotografica volta a rappresentare il mito della famiglia italiana ricca, bella e fortunata e spiegandoci che saremmo tutti potuti diventare come lui.
Davanti ai miti splendenti che ci vengono mostrati in rete (ma anche in televisione, o sui poster pubblicitari), la nostra vita quotidiana risalta di una luce mediocre. Però è la nostra vita che è vera, e mi viene da azzardare che chi sposta il dibattito da un contenuto alla rappresentazione mitizzata della propria figura finisce per essere colpito, non solo metaforicamente, nella sua stessa persona, avendo messo i contenuti in un piano secondario ed accessorio. Una comunicazione emozionale non può essere contraddetta o oggetto di dibattito, solo accettata o rigettata.
Ritornando un’ultima volta sul libro di Solomon, mi ha fatto sorridere la descrizione dell’utilizzo dello storytelling all’interno delle aziende dal management come strumento di potere nei confronti dei dipendenti. Ho pensato -banalmente- come gli stessi dipendenti siano assolutamente in grado, e non da oggi, di raccontare ai loro
superiori le storie che questi volessero sentire, o di rappresentarsi come si sa che l’azienda li vuol vedere. Se tutti raccontano e utilizzano storie, perché non lo dovrebbero fare anche loro?
Se -come da sue stesse premesse- l’arte di affabulare è la stessa ed antica, allora sono tecniche e strumenti ad essere cambiati.
Drammatizzare e portare la comunicazione a livello emotivo si fa solo in rete? Non mi pare. Allo storytelling la rete aggiunge solo il ‘digital’, ovvero lo strumento. Ridimensionando in tal modo la sua importanza, e mettendo in rilievo gli elementi che rendono vitale una narrazione, un racconto di vita.
(Vedi Centers for digital storytelling).
Cristian Salomon ipotizza che il digital storytelling possa rappresentare, oltre che uno strumento del potere, uno strumento di lotta contro il potere. Io mi domando se sia più che altro possibile spostarsi dal ‘luogo delle emozioni’ e rientrare in quello della razionalità, ritrovando alcuni elementi fondanti della narrazione di una storia di vita.
Per esempio, da un punto di vista storico e sociologico, l’attenzione alla veridicità di ciò che viene rappresentato, che può essere ‘emotivamente reale e sentito’ ma non avere un valore storico: vecchi discorsi che si facevano al tempo dell’università su come utilizzare le fonti orali.
Poi, l’integrazione in un contesto della personalizzazione di un racconto in prima persona, per passare da un piano individuale ad uno collettivo.
Ed il valore pedagogico e proattivo della narrazione e della storia di se’ (uch, qui la sparo grossa). Chi narra ed espone la propria esperienza, cresce raccontandola e razionalizzandola, e soprattutto attraverso il confronto con l’altro. In tal modo il proprio vissuto è bussola per una azione politica e contributo per l’agire sociale.
Cose vecchie, che possono servire ancora anche nel ‘digital’.